Una interessantissima sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, la n. 12.470 del 18.05.17, ha affrontato con piglio decisamente innovativo una problematica che trova ingresso, con sempre maggior frequenza, nelle aule di giustizia: ci riferiamo ai cosiddetti danni riflessi dei prossimi congiunti di soggetto macroleso.
In proposito, si è consolidata ormai da qualche anno – nella giurisprudenza di merito e di legittimità – la convinzione che meriti accoglienza, ove adeguatamente allegata e dimostrata, non solo la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale dei prossimi congiunti di un soggetto deceduto, ma anche quella dei parenti stretti di una persona la quale abbia riportato lesioni gravissime seppur non esitate in un infausto, mortale destino.
In particolare, l’indirizzo uniformemente condiviso dai tribunali e dalle corti italiane è quello di ammettere a risarcimento siffatte istanze laddove le medesime siano connesse a una macro-lesione approssimativamente stimabile in un danno biologico permanente del 60%.
Il vero problema è, poi, quello della modalità di entificazione del risarcimento richiesto rispetto alla quale la tendenza palesata nella parte motiva delle sentenze in materia è quella di affidarsi al criterio equitativo puro senza alcun riferimento alle vigenti tabelle milanesi; queste ultime, come noto, prevedono espressamente una forbice risarcitoria (oscillante tra un minimo e un massimo) per i prossimi congiunti della vittima di un evento letale.
Nel caso che ci occupa, la ricorrente aveva agito per ottenere il risarcimento del proprio danno non patrimoniale derivante dall’investimento del di lei marito il quale aveva riportato un danno biologico del 70%. Il tribunale le aveva riconosciuto una liquidazione (comprensiva di danno morale, danno biologico e danno da alterazione della vita coniugale) di euro 63.000,00 circa. La donna proponeva appello invocando l’applicazione delle tabelle milanesi e sottolineando che la gravità del danno subito era talmente elevata da essere sostanzialmente equiparabile a quella conseguente alla perdita tout court del rapporto parentale.
I giudici di secondo grado aumentavano l’importo della somma elevandolo a circa 104.000,00 euro sulla base un criterio che potremmo, benevolmente, definire ‘creativo’ piuttosto che ‘equitativo’; esso attribuiva un determinato valore economico a ciascun anno di futura durata della convivenza con il marito menomato per un arco di tempo di venti anni individuando un valore per la perdita affettiva-sessuale e un altro valore per gli oneri di assistenza.
Il giudice di legittimità ha cassato la sentenza in questione in quanto la medesima non ha fatto un uso, sia pure meditato e temperato, dei parametri previsti dalle tabelle milanesi per i prossimi congiunti di un soggetto deceduto.
La Corte di Cassazione ha ritenuto priva di senso l’attribuzione di euro 2.500,00 per ogni anno di futura convivenza e di altri euro 2.500,00 per ogni anno di assistenza futura. Soprattutto, gli Ermellini hanno censurato il fatto che il relativo computo fosse limitato a soli vent’anni sulla base dell’opinabilissimo assunto che, oltre i sessantasei anni di età, non vi sarebbero significative conseguenze pregiudizievoli per i partner di una relazione coniugale. Infatti, proprio in ossequio alla doverosità di una liquidazione che fosse comprensiva di ogni sfaccettatura (biologica, morale, esistenziale) del danno non patrimoniale, il giudice di merito era tenuto a un utilizzo delle tabelle di Milano. A maggior ragione laddove il criterio alternativo utilizzato (equitativo puro) risulti del tutto irrazionale circoscrivendo arbitrariamente (“ovvero in modo ingiustificato altro che da considerazioni prive di logica“) il periodo di rilevanza di tale alterazione irreversibile.
A questo punto, la Corte mette nero su bianco un principio che dovrebbe rappresentare la stella polare di tutti coloro che si cimenteranno, d’ora in poi, nell’arduo compito di tradurre in vil moneta quel dolore umanamente incommensurabile che si accompagna a tutte le tragedie come quella di cui trattasi.
Ci riferiamo, in particolare, al brano della pronuncia in cui si legge che l’alterazione irreversibile cagionata dalle tragedie in questione non è destinata ad evolversi positivamente con l’avanzare dell’età dei coniugi giacché “ai problemi fisici e psichici riportati dal merito a seguito dell’incidente è destinato a sommarsi il normale deterioramento delle condizioni fisiche di entrambi conseguenti all’avanzare dell’età”.
In definitiva, la Suprema Corte cristallizza un principio di somma equità, oltre che di ragionato buonsenso, imponendo l’impiego dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale a favore dei prossimi congiunti di un morto anche ai casi di liquidazione a favore dei prossimi congiunti di un macroleso. Ovviamente, a questo punto, sarà necessario che l’Osservatorio di Giustizia presso il Tribunale di Milano adotti un parametro di riferimento pure per queste ultime fattispecie. Nelle more, i tribunali dovranno far uso delle tabelle attualmente vigenti tarandole di volta in volta al caso affrontato in concreto.
Ci sia consentita una chiosa. Non è detto che la sopravvivenza in vita del macroleso debba condurre necessariamente alla liquidazione di un danno di importo inferiore rispetto a quello contemplato dalle note “forchette” delle tabelle milanesi; è una verità incontrovertibile – in quanto empiricamente verificabile e, purtroppo, sistematicamente sperimentata sulla propria pelle da tutti le sventurate vittime della casistica in esame – che la sofferenza correlata alle lesioni gravissime di un parente può essere addirittura maggiore di quella scaturita da un lutto. Infatti, nella seconda ipotesi il dolore tende naturalmente ad attenuarsi con il decorso del tempo (medico dell’anima), mentre il patimento interiore legato alla compromessa integrità psicofisica di un prossimo congiunto si rinnova di giorno in giorno. E ciò proprio in virtù della necessitata contiguità con la quotidiana via crucis cui è condannato il familiare macroleso.